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Avv. Antonio Mastrangeli
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 Disconoscimento di paternità: decadenza decorre sempre da scoperta adulterio

Cassazione civile , sez. I, sentenza 26.03.2013 n° 7581 

In tema di disconoscimento della paternità, si conferma la rigidità dello schema delle presunzioni. Al padre che non riesce a dimostrare l’infedeltà della moglie e comunque propone l’azione oltre il termine prescrizionale voluto dalla legge, non è consentito disconoscere i figli, anche se le prove genetiche in suo possesso escludono la paternità biologica.

Le norme di riferimento sono due. L’art. 235 c.c.individua le circostanze in cui può essere esercitata l’azione di disconoscimento, tra cui l’adulterio commesso dalla moglie. In questo caso marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità. L’art. 244 c.c. 2° comma dispone che l’azione è soggetta al termine di decadenza di un anno.

Il caso deciso dalla Cassazione con la sentenza n. 7581/2013, ha inizio con un’azione di disconoscimento presso il Tribunale di Latina nell’anno 2002, nei confronti dei due figli nati nel matrimonio, il cui concepimento era avvenuto nel periodo in cui la moglie aveva avuto ben due differenti relazioni extra coniugali. Contestualmente l’uomo aveva chiesto la dichiarazione di paternità naturale in capo ai due presunti genitori naturali, e infine il risarcimento dei danni morali e materiali nei confronti di questi ultimi.

Il Tribunale aveva rigettato tutte le richieste poiché preliminarmente aveva accertato la decadenza dall’azione che, ai sensi dell’art. 244 2° comma c.c., deve essere proposta entro l’anno dalla nascita dei figli.

La difesa in appello si era basata sul fatto che il termine di decadenza, in caso di azione di disconoscimento fondata sull’adulterio della moglie, il termine decorrerebbe dalla scoperta certa e non dal mero sospetto dell’adulterio. L’uomo, infatti, aveva acquisito la consapevolezza di questo solo a seguito di un biglietto anonimo, che lo aveva spinto a ingaggiare un investigatore privato e a far svolgere le prove genetiche sui minori. Prove genetiche che non erano state ammesse nel giudizio di primo grado.

Anche la Corte d’Appello respinge le istanze dell’uomo, il quale ricorre in Cassazione.

La Corte suprema, in merito alla decorrenza del termine di decadenza di un anno, precisa che detto termine va correlato non al concepimento del figlio ma alla conoscenza dell’adulterio, inteso come relazione a sfondo sessuale e non sentimentale o di mera frequentazione, idonea a determinare il concepimento del figlio che si intende disconoscere (Cass. Civ. n. 6477/2003, Cass. Civ. n. 4090/2005 e Cass. Civ. n. 15777/2010).

Secondo la Corte la prova dell’infedeltà poteva essere facilmente essere desunta dal marito poiché, come risulta dalle dichiarazioni della moglie stessa, più volte la donna aveva minacciato di andarsene con i figli avendo subito le continue scenate di gelosia del marito. Oltre alla valenza confessoria delle dichiarazioni della moglie sulle relazioni extra coniugali, determinante è stata considerata la testimonianza resa dalla sorella dell’uomo, la quale avrebbe confermato che il fratello, affetto da oligospermia, sapeva che i figli non erano suoi ma avrebbe accettato la situazione. Alla luce di ciò, emerge chiaramente l’intempestività dell’azione di disconoscimento. La Corte richiama in proposito, la sentenza della Corte Costituzionale n. 134/1985 la quale aveva esteso al caso dell’adulterio previsto dall’art. 235 1° comma n. 3, il termine decadenziale di un anno dalla scoperta dell’adulterio.

La sentenza prende posizione su un altro punto cruciale delle norme in materia di disconoscimento e sull’orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto.

Le prove genetiche che attestano la non paternità biologica, possono essere utilizzate nel processo se non si prova precedentemente l’adulterio della moglie?

Sul punto è intervenuta anche la Corte Costituzionale (sent. n. 266/2006) la quale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 235, comma 1 n. 3, c.c. nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordinava l’esame delle prove tecniche, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.

A tale riguardo, la Cassazione dichiara di condividere un precedente orientamento della stessa Corte (sent. n. 15777/2010) che specifica la portata della pronuncia d’incostituzionalità, da intendersi nel senso che la prova tecnica è sempre possibile anche per dimostrare l’adulterio, ma ciò non incide comunque sul decorso del termine di un anno, che ha inizio dalla conoscenza del fatto adulterio e dal momento in cui il marito ne sia venuto a conoscenza quale che sia la fonte del convincimento.

In sintesi, la suprema corte ha ritenuto di aderire ad un orientamento formalistico interpretando rigorosamente la norma sulla decadenza, seppur in presenza di risultanze scientifiche diverse che non hanno potuto neppure avere ingresso nel processo.

In materia di disconoscimento del figlio nato nel matrimonio, si tratta di privilegiare la certezza dello status di figlio rispetto alla verità della paternità. La scelta del legislatore è nel senso di privilegiare, nel rispetto degli altri valori costituzionali, la paternità legale rispetto a quella biologica, fissando precise condizioni e modalità per far valere quest’ultima ex art. 235 c.c.

E’ importante però dare atto di una precedente pronuncia della Cassazione che si discosta da questo orientamento, poiché in un caso analogo i giudici hanno ritenuto che la prova del DNA, richiesta dal padre, sarebbe prodromica all’accertamento dell’adulterio della moglie, essendo le due prove due facce della stessa medaglia. Così facendo la Corte ha accolto ilfavor veritatis piuttosto che il favor legitimatis, avuto riguardo all’interesse del figlio di costruire una relazione con il padre biologico ed evitare un'attribuzione di status fittizia (Cass. Civ. n. 1610/2007).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 26 marzo 2013, n. 7581

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -

Dott. CULTRERA Maria Rosaria - rel. Consigliere -

Dott. CAMPANILE Pietro - Consigliere -

Dott. ACIERNO Maria - Consigliere -

Dott. LAMORGESE Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19843/2011 proposto da:

I.E. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 97, presso l'avvocato LEONE GENNARO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

F.V. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 16, presso l'avvocato PATRIZIA VELLETRI, rappresentato e difeso dall'avvocato BRACCIALE FRANCO, giusta procura in calce al controricorso;

P.B. (C.F. (OMISSIS)), I.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliate in ROMA, VIA ACHILLE PAPA 21, presso l'avvocato PAGANO MARIA TERESA, che le rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

G.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ADRIANA 15, presso l'avvocato VALERIA CAMPISI, rappresentato e difeso dall'avvocato TUCCITTO VINCENZO, giusta procura a margine del controricorso;

- controricorrenti -

contro

IA.SI., PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA;

- intimati -

avverso la sentenza n. 2828/2010 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 30/06/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA CULTRERA;

udito, per il ricorrente, l'Avvocato GENNARO LEONE che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito, per le controricorrenti P.B. e I.S., l'Avvocato MARIA TERESA PAGANO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito, per il controricorrente F., l'Avvocato FRANCO BRACCIALE che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

I.E. con citazione del 10.10.2002, ha proposto innanzi al Tribunale di Latina domanda di disconoscimento della paternità dei figli minori I.S. e Ia.Si., nati rispettivamente l'(OMISSIS) ed il (OMISSIS) dal matrimonio con P.B., da cui intanto si era separato, e di dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di G.V. e F.V., assumendo di non essere il padre naturale dei minori in quanto all'epoca del loro concepimento la moglie aveva intrattenuto relazioni extraconiugali prima con il G. e poi col F., nei cui confronti ha altresì chiesto pronuncia di condanna unitamente a P.B. al risarcimento dei danni morali e materiali subiti. Con sentenza n. 849/2006, il Tribunale adito ha dichiarato inammissibile la domanda di disconoscimento essendo la I. decaduto dall'azione in quanto promossa oltre l'anno dalla conoscenza delle distinte relazioni della moglie, da farsi risalire già alle date di nascita dei figli o al più tardi all'(OMISSIS); ha dichiarato inammissibile anche la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, ed ha rigettato le domande risarcitorie. I.E. ha impugnato la decisione innanzi alla Corte d'appello di Roma deducendo d'aver avuto antecedentemente all'anno previsto per l'instaurazione del giudizio un mero sospetto, che divenne consapevolezza circa le relazioni extraconiugali della moglie da cui erano nati i minori S. e Si., solo nel (OMISSIS), allorchè aveva reperito un biglietto anonimo che lo informava del fatto, aveva ricevuto le confidenze della conoscente Pa.Ma.An., aveva assunto informazioni da un investigatore privato ed infine aveva acquisito il risultato negativo dell'esame del dna dei minori, lamentando altresì di non aver potuto fornire esauriente prova del suo assunto per non aver il primo giudice ammesso la prova contraria da lui articolata sui capitoli dedotti dalle controparti, sì che si era trovato nell'impossibilità di dimostrare il mendacio delle testimoni I.A., sua sorella e moglie del F., e F.A., congiunta di quest'ultimo, da lui denunciate per falsa testimonianza, in ordine alla loro conoscenza delle relazioni intrattenute dalla moglie, e che comunque il Tribunale avrebbe dovuto dare ingresso alla prova genetica. Gli appellati, ciascuno dei quali si è ritualmente costituito, hanno chiesto il rigetto del gravame. F. V. ha dedotto altresì in linea preliminare la carenza della propria legittimazione passiva in relazione alla domanda di disconoscimento della paternità del presunto figlio Si., posto che litisconsorti necessari erano questi, la madre ed il padre, quest'ultimo peraltro sprovvisto di legittimazione attiva in relazione all'azione di riconoscimento della paternità di Si.

in capo allo stesso F.. Si è inoltre costituita l'Avv. Carmela Docimo, quale curatore speciale dei minori, che ha chiesto il rigetto del gravame. In corso di giudizio si è infine costituita I.S., divenuta maggiorenne, che ha dedotto l'infondatezza delle domande. La Corte territoriale, ritualmente instauratosi il contraddittorio nei confronti di tutti gli appellati che si sono costituiti per chiedere il rigetto del gravame, ha confermato la precedente statuizione con sentenza n. 2828 depositata il 30 giugno 2010. Avverso la decisione I.E. ha proposto infine ricorso per cassazione articolato in tre motivi resistiti da G. V., F.V., P.B. e I.S..

Il ricorrente ed i resistenti F.V. e P.B. e I.S. hanno altresì depositato memoria difensiva ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

L'altra intimata non ha invece svolto difese.

Motivi della decisione

In linea preliminare va dichiarato il difetto della legittimazione passiva dei convenuti G.V. e F.V., secondo quanto del resto quest'ultimo ha dedotto con eccezione sottoposta al giudice d'appello e ribadita in questa sede, in ordine all'azione di disconoscimento della paternità esperita dall'attore anche nei loro confronti per l'asserita qualità di padri naturali dei figli S. e Si.. Osserva a riguardo il collegio che questa Corte, con consolidato orientamento a cui si intende in questa sede dare continuità (per tutte da ultimo n. 430/2012), ha già affermato che "la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona (Cass. 1985/194). In particolare, la paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui che è indicato come padre naturale, il quale, allorchè deduca che l'esito positivo dell'azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull'azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, tanto da non poter agire contro la sentenza di disconoscimento neppure con l'opposizione di terzo, atteso che il rimedio contemplato dall'art. 404 c.p.c., presuppone in capo all'opponente un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (Cass. 2005/12167)". La questione, rilevabile peraltro anche in via officiosa non essendosi su di essa formato il giudicato in assenza di statuizione del giudice d'appello, pur investito sul punto,va risolta pertanto nei sensi prospettati.

Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 235 c.c., comma 3, dell'art. 244 c.c., comma 2, e correlato vizio d'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo. Lamenta che la Corte territoriale, facendo altresì malgoverno degli enunciati pur riferiti in sentenza, avrebbe erroneamente assunto a dato decisivo, ai fini dello scrutinio dell'ammissibilità dell'azione da lui esperita di disconoscimento della paternità, la dimostrata esistenza del mero sospetto da lui nutrito sulle relazioni extraconiugali intrattenute con i due convenuti dalla P., e non già la scoperta del loro rapporto adultero, da intendersi quale acquisizione della conoscenza di una relazione ovvero di un incontro che comunque avesse investito la sfera sessuale, sì da determinare il concepimento dei figli che intendeva disconoscere. Il giudice dell'appello avrebbe in sostanza equiparato alla conoscenza dell'adulterio, da cui decorre il termine di decadenza posto dalla norma in rubrica, il mero dubbio circa la frequentazione della P. con gli altri uomini, desunto dalla condotta concretatasi nello stretto rapporto con G. e dall'episodio del massaggio non terapeutico del F.. La decisione sarebbe pertanto affetta dal denunciato error juris laddove equipara il sospetto, emerso dal compendio istruttorio acquisito, alla scoperta degli adulteri della moglie, e risulterebbe illogicamente argomentata nella parte in cui desume tale conoscenza dai riferiti, pur criticabili episodi, riguardanti i presunti padri naturali dei figli. Il ricorrente formula infine conclusivo ma superfluo quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., abrogato dalla L. n. 69 del 2009, in relazione alle decisioni pronunciate successivamente alla data del 4 luglio 2009 della sua entrata in vigore.

Tutti i resistenti deducono l'inammissibilità ovvero l'infondatezza del motivo.

Il motivo espone censura priva di pregio.

La Corte del merito, premesso che il termine decadenziale previsto dall'art. 244 c.c., va correlato alla conoscenza non già del concepimento del figlio bensì dell'adulterio della moglie che, secondo orientamento giurisprudenziale citato, deve concretarsi nella cognizione di un legame a sfondo sessuale della donna, ha ritenuto acquisita in giudizio la relativa prova anzitutto alla luce dalle stesse affermazioni contenute nell'atto di citazione - l'intenzione più volte manifestata dalla P. di andarsene con la figlia S. ed il G. e le scenate di gelosia del F. per la relazione intrattenuta tra la predetta e E.V.-, correttamente ritenute dal primo giudice aventi contenuto confessorio circa la certezza e non già il semplice sospetto delle relazioni della moglie con i due convenuti, attestanti durata ed intensità affettiva di quegli stretti legami. Indi ne ha tratto conferma dalla deposizione di I.A., sorella dell'attore e moglie di F.V., che, escussa a prova diretta, dichiarò che il fratello, affetto sin dal (OMISSIS) da oligospermia, accettò i figli come suoi pur sapendo di non averli generati. Ha infine concluso che il coerente quadro istruttorio emerso, non validamente contrastato dalle deposizioni degli altri testi R. e Pa., ammantano di conclusiva univocità l'intempestività dell'azione promossa dallo I.. L'approdo richiama puntualmente nella motivazione il quadro normativo che regola il caso di specie alla stregua del disposto dell'art. 235 comma 1, n. 3, che prevede che l'azione per il disconoscimento della paternità del figlio concepito durante il matrimonio è consentita "se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio ---", in combinato con l'art. 244 c.c., corretto a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 134 del 1985 che estese all'adulterio la soluzione prevista per il celamento della nascita, che al comma 3 legittima l'azione entro un anno dal momento della conoscenza del fatto che la rende ammissibile, vale a dire dell'adulterio. E citandolo in parte, si uniforma all'orientamento consolidato di questa Corte - cfr. Cass. n. 5248/2000, n. 1264/01, n. 14887/02, n. 6477/2003, n. 4090/2005, n. 15777/2010- che il collegio condivide ed al quale intende in questa sede dare continuità, secondo cui il dies a quo del termine annuale va collocato nel momento della scoperta dell'adulterio, intesa quale conoscenza della relazione o dell'incontro di carattere sessuale della donna con altro uomo, idonei a determinare il concepimento del figlio che s'intende disconoscere. Nel solco di questo contesto esegetico ed in assoluta coerenza, ha dunque criticamente vagliato il compendio istruttorio acquisito in giudizio, apprezzando l'idoneità dei fatti da esso emersi a rendere noto allo I. il duplice adulterio, consumato della moglie prima con l'uno e poi con l'altro dei convenuti nei periodi concomitanti con il concepimento dei figli Si. e S..

Il percorso logico che ne sostiene la conclusione è all'evidenza immune dal vizio denunciato. La valutazione delle evenienze istruttorie e la sintesi ricostruttiva da essa desunta, esaustivamente e logicamente argomentate, ineriscono al merito e, risultando argomentate sulla base di puntuale tessuto motivazionale, non sono sindacabili da parte di questa Corte cui è preclusa la rivisitazione della vicenda fattuale. Ne discende il rigetto del motivo.

Il secondo motivo, con cui il ricorrente ribadisce analoga censura anche in relazione all'art. 116 c.p.c., verte sull'attendibilità della deposizione della sorella I.A., moglie del F., a suo avviso con questo compiacente. Ed invero, la Corte d'appello, secondo il ricorrente, non avrebbe tenuto conto del testo della telefonata nel corso della quale ella gli disse che avrebbe dovuto schierasi con la P. e purtroppo "fare le cose contro di lui", nè che la deposizione non era decisiva poichè non ineriva all'adulterio ma alla sua situazione clinica di impotentia generarteli. Gli altri testi, anch'essi inattendibili, non avrebbero smentito che egli apprese dell'adulterio solo all'esito delle prove genetiche, dunque entro l'anno dall'introduzione del giudizio.

Il motivo, di cui i resistenti chiedono il rigetto, è inammissibile laddove induce palesemente alla rilettura della deposizione della testa I.A., preclusa a questa Corte, e richiama in senso assolutamente generico le altre deposizioni senza trascriverne il contenuto. E' infondato laddove in senso inconferente richiama la dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 235 c.c., comma 1, n. 3, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 2006/266 con riguardo alla parte che, ai fini dell'azione di disconoscimento della paternità, subordina l'esame delle prove tecniche da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie.

Con la citata sentenza n. 15777/2010, che si richiama e si condivide, si è chiarito che tale pronuncia, correggendo l'interpretazione che della norma era stata data da questa Corte, che subordinando all'indagine sul verificarsi dell'adulterio la prova della sussistenza o meno del rapporto procreativo comportava che questa, anche se espletata contemporaneamente alla prova dell'adulterio, poteva essere esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di quest'ultima, e al diverso fine di stabilire il fondamento del merito della domanda, sicchè, in difetto di prova dell'adulterio, non poteva pronunciarsi il disconoscimento neppure se fosse risultata dimostrata l'incompatibilità genetica o del gruppo sanguigno del figlio rispetto al presunto padre, afferma che la norma consente l'accesso alle prove ematiche anche a prescindere dalla previa prova dell'adulterio perchè la contraria interpretazione viola i principi di libero accesso alla prova e della pienezza del diritto di difesa.

Il corollario, che ammette la possibilità di dimostrare lo stesso adulterio anche ricorrendo alla prova tecnica, non incide però sul momento iniziale del decorso del termine previsto dall'art. 244 c.c., e non interferisce dunque sulla disciplina dettata in tema di decadenza per la quale rilevano solo la scoperta del fatto "adulterio" ed il momento in cui il padre ne sia venuto a conoscenza, quale che sia stata la fonte che lo abbia reso edotto, prescindendo dall'accertamento della sua corrispondenza alla verità, che egli ha semplicemente il potere processuale di dimostrare senza incorrere in preclusioni, dunque attraverso ogni opportuna indagine tesa ad accertare le incompatibilità idonee a dimostrare l'adulterio" Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2043 c.c., e art. 567 c.p., e lamenta che la Corte del merito, nel contesto di una motivazione omessa o insufficiente, ne avrebbe fatto malgoverno avendo rigettato la sua domanda risarcitoria avendola ritenuta dipendente da quella principale - rigettata -, pur in presenza della prova acquisita in atti dell'illecito penale rappresentato dalla falsa attestazione di stato dei figli.

I resistenti chiedono il rigetto della censura.

Il motivo deve essere dichiarato inammissibile. Statuito il rigetto della domanda risarcitoria, attesa la sua stretta correlazione con la domanda di disconoscimento, la Corte territoriale ha dichiarato nel contempo inammissibile la prospettazione della nuova causa petenti, siccome assunta a fondamento della domanda risarcitoria solo in sede d'appello in violazione dell'art. 345 c.p.c., laddove è stata riferita al disposto dell'art. 567 c.p.. Trattasi di autonoma ratio decidendi contro cui il mezzo in esame non agita critica alcuna.

Tutto ciò premesso, il ricorso devesi rigettare con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidandole in favore di P.B. e I.S. nell'importo di Euro 3.000,00, per compensi, ed Euro 200,00 per spese, in favore di F.V. in egual misura ed in favore di G.V. nell'importo di Euro 2.500,00 per compensi e di Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, in caso di diffusione della presente sentenza si devono omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2013.

 

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